Yufen Qin, "Vento senza parole", 2001


ASIART/Asian Contemporary Art
Genova crocevia dell’arte contemporanea fra Oriente e Occidente
di Sandro Ricaldone

L’attenzione che negli anni più recenti si è venuta concentrando sulle creazioni artistiche contemporanee provenienti dal continente asiatico ha più di una radice. La più importante fra queste risiede indubbiamente nell’accelerazione del processo di globalizzazione – peraltro, come nota Jacques Leenhardt, “già interamente contenuto nei principi scientifici, tecnici e ideologici che (nel XVI e nel XVII secolo) animavano gli attori del mattino della modernità” – e nell’estendersi dei suoi effetti da un’“economia-mondo” ad una “cultura-mondo”, in un quadro di contrasti così intensi da giustificare l’affermazione che Edouard Glissant mette in bocca al protagonista del suo “Tout-monde”: “Je suis un malade universel, affecté par le monde”. Altre rivestono un carattere più contingente: la relativa “liberazione che si è verificata, in una maniera tortuosa e oscura, a lato del pensiero politico ufficiale” in Cina a partire dal 1978 e, più significativamente, nel corso degli anni ‘80; l’attenzione rivolta da studiosi ed organizzatori come Jean-Hubert Martin e Harald Szeemann.
Una discussione intensa si è instaurata attorno alle modalità in cui questa attenzione si va concretando: sull’inserimento di alcuni artisti orientali nei circuiti commerciali europei e statunitensi e sulla “proliferazione di Biennali internazionali e di kermesse cosiddette periferiche”. Se per un verso emerge la positività del “riposizionamento delle ricerche artistiche all’interno di eventi internazionali, che solo in questo modo danno visibilità e spazio a fenomeni di “marginalità” e di antagonismo estetico” si imputa per contro al “sistema centrifugo occidentale” di assorbire “energie e poetiche dell’Altrove nella sua norma unificatrice” in quanto prigioniero di “una logica strutturale e istituzionale che tende a cancellare elementi di eterogeneità, fagocitandoli nello stesso schematismo ideativo, normalizzante, settoriale, comparativo”.
Senza prescindere da ciò che, con riferimenti specifici ad altri ambiti geografici e culturali ma con valenze generali, è stato scritto – ad esempio da Edward Said e da Ngugi Wa Thiong'o - a proposito di “un’esperienza storica di resistenza all’impero” o sulla necessità “di muoversi verso un pluralismo … culturale e linguistico”, sembra opportuno osservare che, almeno per quanto concerne le arti dell’Estremo Oriente, il rapporto con la cultura occidentale non sembra esser stato a senso unico.
Se la voga delle chinoiseries, diffusasi nelle corti europee nel XVII secolo, ebbe prevalenti connotazioni esotistiche, il fenomeno del “Japonisme” ha influenzato in maniera decisiva l’arte moderna europea, dall’Impressionismo al Simbolismo, introducendovi non soltanto nuovi pretesti tematici ma decisivi mutamenti formali, quali la composizione piana, estranea alla costruzione prospettica d’origine rinascimentale; l’importanza del contorno; la dinamica del movimento, così importante in Toulouse-Lautrec; l’uso del colore puro, e la tecnica a punto e tratto decisivi in Van Gogh.
E se è vero che, a partire dal soggiorno di Fontanesi in Giappone, hanno preso campo in quel paese tendenze pittoriche d’impronta occidentalizzante, ben presto integrate appieno nella dialettica delle avanguardie, e che analoghi svolgimenti - seppure meno tempestivi e pronunciati - si sono delineati successivamente in Cina, in Thailandia ed in Corea, non si può sottacere l’incidenza di modelli orientali, questa volta calligrafici, di una pluralità di artisti americani ed europei, da Tobey a Mathieu, da Bissier a Dotremont, né l’opera di mediazione culturale di uno dei critici più influenti dell’epoca: Michel Tapié, teorico dell’Art autre, autore con Tore Haga di un volume dal titolo significativo: “Continuitè et Avant-garde au Japon”.
Per lungo tempo ancorato a questa sorta di scambio cronologicamente sfalsato, benché in sostanziale equilibrio, nel quale europei ed americani guardavano ai tratti tradizionali delle arti dell’Oriente, mentre gli artisti dei paesi orientali si interessavano piuttosto ai loro contemporanei dell’altro emisfero, il rapporto fra Occidente ed Asia nell’ambito delle arti visive negli ultimi anni è andato rapidamente mutando, come s’è accennato, nella direzione di un’interazione sempre più stretta e di un’assoluta contestualità.
Fra le prime manifestazioni, non soltanto in Italia, a render conto di questo clima mutato è stata la Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea ASIART/Asian Contemporary Art, CURATA DAL Centro Ligure di Studi Orientali (C.E.L.S.O.) con la quale Genova – già punto di riferimento importante per la conoscenza dell’arte giapponese con le raccolte del Museo Chiossone – si è proposta come crocevia dell’arte fra Oriente ed Occidente anche nell’ambito della contemporaneità, in una direttrice che evita le trappole della moda culturale, “il melting pot, il minestrone, il guazzabuglio” evocato da Glissant, per indirizzarsi verso una prospettiva di relazioni ove “le differenze … si incontrano, si aggiustano, si oppongono, si accordano e producono l’imprevedibile”.
In un contesto locale che già aveva dato segno d’interesse per la produzione artistica giapponese, con le personali di Nuobuo Sekine e di Shusaku Arakawa allestite nel 1970 dalla galleria La Bertesca di Francesco Masnata e con la rassegna “Giappone, avanguardia del futuro” (1985), con le presenze di un’artista Fluxus come Takako Saito allo Studio Leonardi (1991, 1994) e all’Archivio Caterina Gualco (1996) dove si tiene anche una personale del coreano Nam June Paik (1989), Asiart ha proposto sino ad oggi due edizioni (1999 e 2001) precedute nel 1997 da un prologo, o numero zero, sul tema “L’incontro con l’Occidente: Giappone, Cina, Corea”.

Nel 1999 si realizza il progetto di far convergere nell’evento Biennale una rete di programmi di collaborazione e di scambio attivati negli anni precedenti con musei, istituzioni artistiche, gallerie ed università di una pluralità di nazioni.
Il calendario contemplava una pluralità di iniziative dislocate in diversi ambiti cittadini, fra cui spazi museali (Villa Croce e Sant'Agostino), edifici storici (il Convento di Santa Maria di Castello, la Commenda di Pré), vie e piazze dove saranno ospitate installazioni e performances.
Un primo ciclo di eventi, articolati lungo i mesi di giugno e luglio, s’imperniava su una rassegna dedicata alla calligrafia giapponese contemporanea, allestita con opere di cinquantacinque fra i maestri giapponesi del ‘900 provenienti dalla collezione del Museo Nazionale Nihon Shodo Bijutsukan di Tokyo, nelle sale di Villa Croce.
Sempre a Villa Croce veniva presentata una suggestiva installazione di pietre e sabbia ("Tobi-ishi. Stepping Stones") dell’artista giapponese Shinji Yamamoto, un sentiero attraverso cui, “un passo dopo l’altro, un tempo dopo l’altro” il visitatore era condotto dentro l’opera realizzata.
Il Museo di Sant'Agostino ospitava invece una rassegna di opere realizzata dalla Indian Free University of Arts and Crafts del Bihar secondo i canoni della pittura Mithila, un'arte vigorosa e pregnante, di forte impatto cromatico, ove l'ispirazione epica (tratta dalle narrazioni del Mahabharata e del Ramayana) si coniuga con la dimensione quotidiana.
Il primo ciclo delle manifestazioni espositive era completato dalla mostra fotografica "Tsutsumu", allestita nei locali del Centro della Creatività a Palazzo Ducale, un intrigante sguardo sulla fusione di elementi tradizionali e futuribili, di forme astratte e materiali naturali che percorrono il package design giapponese contemporaneo. Centrale fra gli eventi che caratterizzavano la seconda parte della manifestazione, nei mesi di settembre e ottobre, la rassegna di installazioni ordinata, nuovamente, nelle sale del Museo di Villa Croce, ove il dilemma tradizione-modernità veniva nitidamente tematizzato - talora attraverso un'ironia stringente, talora invece con profonda intensità evocativa - accanto ad altri motivi che ne amplificavano la risonanza, come l'antitesi fra natura e artificio.
Shingai Tanaka (giapponese, presente anche al Palazzo della Commenda con una prersonale) riprendeva in un grande lavoro su carta le modalità della disciplina calligrafica sottolineando però i valori universali del segno mentre l’artista cinese Jiechang Yang - i cui lavori erano stati esposti pochi mesi prima presso la Galleria dell'Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino - metteva in scena, con "Testament", una installazione in cui era messo in questione il culto degli antenati. Sullo sfondo di un'ampia tela dipinta in nero, l'artista, la cui riflessione si è sovente appuntata sul tema della morte (fra le sue opere più note figurano alcuni dipinti intitolati "Guillotine"), disponeva infatti un vaso ed un'iscrizione che prescrive: "quando morirò di morte innaturale, datemi in pasto ad una tigre e conservate i suoi escrementi".
Bing Xu, artista che dopo aver studiato calligrafia all'Accademia di Pechino ha lasciato la Cina in seguito al massacro di Piazza Tienanmen, proponeva invece un allestimento senza titolo in cui torna ad affrontare i temi toccati in lavori antecedenti ed in particolare in "Book from the Sky" (1987-91) dove esponeva una moltitudine di volumi riempiti di caratteri che ricordavano nelle forme gli ideogrammi cinesi ma erano in realtà di sua invenzione, ad eccezione dei dieci numeri utilizzati nelle elezioni locali, volendo con questo sottolineare che "se uno non può votare l'immensa tradizione intellettuale cinese perde ogni significato".
Frammenti di libri triturati erano ammassati sul pavimento ("Zeropoint literature") o raccolti feticisticamente in teche di plexiglas ("Books of Erotics") da Wu Mali, secondo un procedimento già esibito alla Biennale di Venezia del 1995, quando con altri artisti fu selezionata per rappresentare Taiwan da una ristretta commissione internazionale di cui faceva parte il critico genovese Enrico Pedrini, promotore nel 1998 della mostra di un altro autore taiwanese, Marvin Minto Fang, alla Fondazione Katinca Prini ed allo Studio Leonardi.
Izumi Oki, giapponese, proponeva una spirale di misurata ed aerea eleganza, costruita con lastre di vetro sulla sabbia, mentre Uk-Sun Lee (Corea) aveva raccolto sotto il titolo perentorio: "Silenzio! Artisti" un accrochage surreale formato da due braccia in gesso che fuoriuscivano dal muro indicando direzioni diverse e da un tavolino sul quale era distesa una grossa pietra spaccata.
Di grande impatto emotivo l'installazione "Foresta Celeste" del cinese Qi Kai Zang, folto intrico di bambù imitati con tessuti e armature in fil di ferro, costellato di segni calligrafici così come "La strada per Buddha for Genova" della coreana Sung-Keum Ahn, dove un gran numero di statue di Buddha, di differente dimensione, materiale e colori figurano sezionate e riunite, assiepate o disperse in uno spazio che acquisisce una profondità immateriale, contornato da rotoli che riportano in lingue diverse alcuni sutra.
Altre mostre di autori palestinesi, indiani, birmani, indonesiani (oltre che, nuovamente, giapponesi, coreani e cinesi) erano ospitate a Palazzo Ducale, alla Commenda, nelle Cisterne di Santa Maria di Castello. Di qui la Biennale si estendeva nella città, fra l’Università e Piazza de Ferrari con sculture e allestimenti di Norio Nagayama, Yoshin Ogata, Qi Kai Zang.

Nell’edizione del 2001, accanto ad un itinerario di segni e scritture dal Medio Oriente all’Asia Orientale (“Asiagrafie” a Palazzo Doria Spinola) e ad una mostra di video e fotografie dedicata all’Action Art in Cina (nella sede del C.E.L.S.O., in Galleria Mazzini) sono nuovamente le installazioni a costituire il nucleo forte della manifestazione. Dove, ancora, nonostante l’universalità del tema (“Labirinti”) si poteva avvertire la tensione fra le diverse polarità intellettuali. “La cultura cinese è il sangue che scorre nelle mie vene” – dichiarava Yufen Qin, un’artista arrestata nel 1989 in occasione di una mostra tenuta poco prima delle manifestazioni studentesche di Piazza Tienanmen, represse dall’esercito, e in seguito trasferitasi a Berlino - “ma il mondo occidentale è l’aria che respiro”. A Villa Croce questa autrice presentava un’installazione, “Vento senza parole”, in cui decine di ventagli erano sospesi al soffitto entro una gabbia di bambù, in un insieme articolato su tre fattori essenziali: “silenzio, meditazione e poesia”. Un intrico dall’equilibrio precario, all’opposto di quello saldamente costruito dall’irakeno Mehdi Moutashar su una pianta ricavata da un vocabolo che, nella scrittura cufica, indica l’”elevato”, “il senza nome”, e qualifica l'opera come virtuale dimora del divino.
Una struttura lineare in metallo, sospesa a mezz’aria, quasi dipanata a forza da un intreccio serrato, costituiva la prova stimolante della coreana Ok-Joo Shin. In una direzione ancor più minimale, in rapporto con l'estetica zen, si muoveva il giapponese Sato, sospendendo obliquamente un bambù su una superficie di ghiaia. Pinaree Sanpitak, thailandese, scandiva lo spazio con una sequenza di teli di colore digradante dal nero al grigio, nei quali le trame più o meno rarefatte del tessuto consentivano d’intravedere profili di seni femminili, apparentati nel titolo e nella forma allo “stupa”, oggetto buddista che simboleggia la trasformazione dell’esperienza mondana. Mentre questo lavoro, esposto in seguito al Fukuoka Asian Art Museum, forse la più importante sede istituzionale giapponese dedicata all’arte asiatica contemporanea, appariva legato in prevalenza al retaggio della cultura orientale, sulla dialettica con le influenze occidentali viene si concentrava invece il coreano Sejoong Yoo, facendo riflettere dall’acqua contenuta in una vasca, alternate, immagini di personalità centrali di entrambe le tradizioni, come Buddha e Nietzsche. Entro un analogo orizzonte si colloca “Temple of Exoticisms/United Nation” del cinese Gu Wenda, una sala ammobiliata accostando suppellettili cinesi ed europee (Ming e Luigi XV), contornati da cortine di capelli umani sulle quali compaiono testi realizzati combinando caratteri latini, arabi, cinesi ed indiani.
L’impiego di elementi calligrafici caratterizzava anche il lavoro di Norio Nagayama, composto da teli lunghi sette metri sospesi sopra il vano d’ingresso, e le elaborazioni al computer di Luming Li, ove ideogrammi rossi costellavano inquietanti figure tubolari incluse in un paesaggio cinese tradizionale.
Concentrata sull’immagine mediatica, su un divismo cinematografico che assimila Bombay ad Hollywood, l’installazione di Monali Meher, indiana, composta da una serie di pannelli retroilluminati con sgargianti foto di scena e manifesti in cui al volto del personaggio raffigurato l’artista ha sostituito il proprio, tracciando una sorta di percorso fra identità immaginarie.
Il tema del labirinto era enunciato con maggiore immediatezza nel lavoro della coreana Eun-hee Cho, una delicata selva di nastri di carta bianca sospesi al soffitto, e nella videoscultura del suo compatriota Kang che proponeva, attraverso il monitor, una sorta di dedalo elettronico. Un tono più ludico distingueva l’assemblaggio messo in opera da un altro coreano, Park, applicando alle pareti e sul pavimento frammenti di sculture con un acuto effetto di spiazzamento.
A chiudere idealmente la rassegna era un ambiente di grande fascino creato da Qikai Zhang (autore anche di un’installazione nel cortile di Palazzo Ducale, con oltre cento metri di seta oscillante nel vento): un lago attraversato da una passerella fiancheggiata da due riquadri stillanti acqua, sui quali venivano proiettate, con effetto illusorio, immagini di una tela fugacemente sollevata dalla pressione leggera di una mano. Una successione di gesti e di energie elementari che riprendono, in un contesto e con una strumentazione attuale, l’antica lezione della pittura cinese, “assumendo in sé – come scrive François Cheng nel classico “Il vuoto e il pieno” – “il ritmo e le segrete pulsioni dell’uomo”.

 

  (settembre 2004)



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