QUESTIONARIO ILLEGITTIMO

Approssimazioni intorno alla pittura di Pinot Gallizio

di Sandro Ricaldone

 

Nella vicenda di Gallizio la versatilità estrosa del personaggio ed il coinvolgimento nei casi - complessi ed approdati ad esiti in definitiva estranei alle sue preoccupazioni di fondo - dell'Internazionale Situazionista, sebbene abbiano largamente contribuito a mantener desto l'interesse attorno alla sua figura, hanno finito col palesarsi come i principali antagonisti dell'affermazione in campo pittorico, ponendone in ombra la riuscita rispetto a taluni risvolti folklorici ed all'insieme delle problematiche sollevate dall'iniziativa di cui Pinot fu il "direttore tecnico", il Laboratorio Sperimentale di Alba, e dal suo prodotto piu' tipico, quella "pittura industriale" che costituisce, con la sequenza delle "peintures modifiées" di Asger Jorn (e, probabilmente, con una maggiore acutezza rispetto a queste, dovuta al "non professionismo" dell'autore) il maggior risultato raggiunto nella direzione del superamento (per linee interne) dell'oggetto artistico.

E' ciò che rileva Piero Simondo nella "Testimonianza su Pinot Gallizio" che compare nel catalogo della mostra svoltasi, nel 1974, presso la Galleria d'Arte Moderna di Torino, osservando che, pur senza essere nel '55, all'epoca dell'incontro con Jorn, un pittore, Gallizio era "motivato in maniera storicamente ben determinata a iniziare e compiere quell'operazione che in effetti ha compiuto", divenendo - con un apprendistato di soli due anni - "pittore, e importante in quanto tale" sì che "l'ascesa, il declino e la caduta - se ci sono stati - di Pinot, sono l'ascesa, il declino e la caduta del pittore Pinot e della sua pittura".

Gli inizi sono incentrati, significativamente, sulla sperimentazione di tecniche inedite o non ortodosse, con l'impiego - in esperienze condotte unitamente a Simondo - di resine naturali e sintetiche dapprima nella confezione di vasi e, in seguito, di quadri d'impronta espressionista (da cui traspare l'ammirazione per Van Gogh testimoniata da Sandberg) contrassegnati da quella "visionarietà ingenua" (Calvesi) e dall'ossessione per la materia pittorica che accompagneranno Gallizio lungo tutto l'arco del suo percorso, sino ai dipinti "Neri" del 1963-64 ove si palesa un'inclinazione notevolmente dissimile, un attraversamento dell'opacità che sopprime l'esuberanza fantastica sostituendola con un registro metaforico di penetrante efficacia.

Le opere di questo periodo sono scarsamente note (mai esposte, sia per l'intrinseca fragilità sia per il carattere di prove ancora non mature, nè mai riprodotte); il loro esame rivela tuttavia - è il caso ad esempio di "La grande sera" (1954), un tramonto avvampato sulle torri buie di Alba - un'impostazione dell'immagine vigorosa, pur se in certa misura schematica, lontana comunque da qualsiasi connotato naif.

Decisivo per la formazione di Gallizio (ed immediatamente percepito come tale, secondo quanto attestano le note riportate nel diario) l'incontro - cui già s'è fatto cenno - con Asger Jorn che imprime un ulteriore impulso alla "liberta' di ricerca", incanalando la sperimentazione nella prospettiva estetica antifunzionalista del M.I.B.I., "innestata su una cultura sia surrealista che etno-popolare" (Bandini) e radicandola in un'ampia rete di riferimenti internazionali rappresentata principalmente dalla diaspora di CoBrA, dal Movimento Nucleare di Baj, Dangelo, Sottsass, Colombo e dall'Internazionale Lettrista di Guy-Ernest Debord e Gil J. Wolman, protagonisti (taluni in conflitto fra loro) del "Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi" tenutosi nel settembre 1956 ad Alba.

L'influenza di Jorn si manifesta inoltre in una dimensione squisitamente stilistica, fornendo (senza peraltro assurgere a paradigma vincolante) nell'articolazione espressiva di origine CoBrA uno spettro di soluzioni formali consono sia ai presupposti assimilati nell'esercizio compiuto in precedenza, sia all'erompente vitalità di Gallizio ed a taluni suoi specifici interessi per le culture primitive e minoritarie.

Fra i lavori più noti di questo periodo, che si estende dal 1955 al 1957, si contano lavori assai prossimi, nell'impostazione, e comparabili negli esiti al cospicuo "bestiario" CoBrA : "Upupa", 1955; "Senza titolo", 1955-56 (coll. Gallizio); "La Cicogna", 1957, costituiscono infatti con "Flamenco" e "Gli alti pascoli", entrambi del '57, esempi di una pratica pittorica (varia sotto il profilo esecutivo) che per intensità cromatico-materica già attinge quella condizione di "estasi violenta" che verrà in seguito - e in termini diversi - teorizzata dall'autore.

L'interesse per questa maniera - assunta come si è visto dall'interno, secondo una peculiare modalità "calda" - viene a scemare (non senza qualche significativo ritorno, in dipinti del genere di "Autoritratto", 1959) a partire dal '58, con la produzione della "pittura industriale" destinata, nell'ottica situazionista puntualizzata da Michèle Bernstein, a realizzare "il superamento e la distruzione dell'oggetto pittorico" attraverso una pratica inflattiva tesa a provocare l'azzeramento del valore di scambio.

Prescindendo (volutamente) da questo tipo di tematica, la cui inattualità non costituisce in ogni caso motivo di conforto, occorre notare l'assunzione - in quest'ambito - di un linguaggio informale, comprensibilmente applicato, nonostante l'irriducibile propensione comunicativa, piu' nei termini convenzionali della "langue" che in quelli auratici dell'espressione individualizzata.

Mentre l'applicazione all'ambiente della pittura industriale (la "Caverna dell'Anti-materia", Galerie René Drouin,1959;il progetto per lo Stedelijk Museum di Amsterdam, 1959-60) prelude a sviluppi definitivamente consolidati, ad opera di altri artisti, nella seconda metà del decennio successivo, le tele coeve (tipico il dipinto "Senza titolo", 1959, appartenente alla collezione Martano)attestano una riflessione approfondita sull'esperienza tachiste (gli accostamenti possibili sono molti, dal mondo germinale di Wols ai "grovigli" dei nucleari,mentre la lezione di Mathieu, del pari considerata, sembra invece affiorare direttamente nella parafrasi geometrizzante della "Gibigianna" e de "La storia di Ipotenusa".

In questi cicli la cadenza narrativa (o pseudo-narrativa) dei soggetti, che riprendono parodisticamente gli schemi della ballata popolare, fornisce in realtà una cornice al "libero accumulo di eventi" (Carluccio) dispiegato dall'artista sulla tela, assestando il dilagare del flusso immaginativo nel concatenarsi degli episodi di un "acceso melodramma,a volte ironizzato a volte sofferto", retto da una sorta di "bonaria illogicità" (Lonzi) contigua al canone patafisico.

Vi si esplica una conflagrazione (parossistica ma non distruttiva) di linguaggi: all'informale perdurante sul piano di fondo si sovrappone, antagonisticamente, una forma di signisme materico-geometrico per il quale,almeno limitatamente alla "Gibigianna", non appare impropria l'ipotesi di "quasi-figuratività" e di memoria cubista avanzata da Renzo Guasco.

Caratteristica di Gallizio, oltre alla costante preoccupazione sperimentale che lo induce a saggiare materiali, procedimenti, interazioni talora consapevoli (come nel caso della "peinture d'ensemble" praticata con Shoshana) o fondate sull'azzardo (l'esposizione di un lavoro alla grandine, ad esempio) è la sedimentazione e l'avvicendamento delle maniere espressive assimilate.

Al riemergere di tempo in tempo della variante CoBrA di cui s'è detto, si accompagna la piena ripresa informale di opere quali "La notte etrusca" (1962, appartenente al ciclo "Le notti di cristallo"), opera capitale del genere - allo stesso titolo de "La notte cieca" (1962), tela di dieci metri di lunghezza dipinta indossando, in una proto-performance, un cappuccio - ove la superficie pittorica modulata su trapassi cromatici "morbidi" si costella di bianchi nebulizzati.

Marcatamente discosti da una simile atmosfera i lavori eseguiti nel periodo immediata-mente successivo, inclusi o meno nelle sequenze degli "Oggetti e spazi per un mondo peggiore" e de "Le fabbriche del vento" (1963) - individuati da aggregazioni di tratti curvilinei, dallo spessore dell'impasto, da accostamenti tonali - analoghi per taluni aspetti a configurazioni proprie della ricerca artistica giapponese contemporanea, da Fujiko a Motonaga, da Shiraga a Yoshihara, di cui in quel volgere di tempo Michel Tapié (che a Torino pubblica, nel 1961, uno studio sull'avanguardia in Giappone) si andava occupando.

Modalità di forma, queste, su cui si innestano i primi "Neri" (1963) "un'ode alla morte" retta da motivi circolari "che comunque ci parlano di continuità, del trasformarsi perenne della vita" (Vivaldi) avvertibili ancora, nonostante la metamorfosi oggettuale, nelle prove estreme del 1964.

 

(1988)

 

 

 

 

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