RICORDO ASGER JORN

di Piero Simondo

 

Ho conosciuto Asger Jorn una sera d'agosto del 1955 ad Albisola, in una saletta del Bar Testa, allora ritrovo d'artisti.

Quando l'ho conosciuto non avevo ancora visto un suo quadro, non sapevo cosa facesse, ed ovviamente non avevo la minima idea se la sua pittura potesse interessarmi, anche se mi era stato vagamente accennato da Antonio Siri, scultore albisolese, di questo vichingo pittore calato in Italia. Non che il mio eventuale interesse per la sua pittura fosse importante: non ero e non sono un critico.

Se ci ripenso oggi, sono molto contento che le cose siano andate così: ho conosciuto Asger come individuo, come uomo, non come pittore, non attraverso il filtro sviante di un'opera, non attraverso la curiosità snobistica nei confronti di una conclamata ultra-avanguardia e di un rappresentante esotico della stessa; pertanto non attraverso entusiasmi da salotto amatoriale-galleristico (un calice di bianco, una tazza di thé, una fetta di salame su pane nero - bla-bla), né attraverso deformazioni e gelosie piccolo-pittoriche, piccolo-provinciali, piccolo-albisolesi o milanesi o copenhaghesi, o parigine etccccc. Non che io fossi più ingenuo di quant'ero, né lui, d'altronde.

Asger Jorn era bello, biondo, occhiazzurri, c'era, si vedeva, suonava l'ukulele e pareva non occuparsi d'altro, quella sera, oltraggiosamente, che di quel suo piccolo chitarrino, un giocattolo buffo nelle mani di un uomo grande e grosso, con mani di chi lavora con le mani. Dico così non per farmi vanto della mia conoscenza di lui, come se nessun altro lo avesse visto come uomo prima che come pittore, intellettuale, avanguardista post-storico, ma perché Asger diceva di sé di non essere un pittore ma di farlo, così come non era ma faceva molte altre cose.

Abbiamo cominciato a parlare insieme quella sera stessa, sul tardi, mentre gli altri pittori di Albisola folleggiavano a mezzanotte sulla spiaggia, in quella saletta di bar, dove esponevo occasionalmente, su invito degli amici Siri, Sciutto e Caldanzano, pitture su legno fatte con resine naturali, e abbiamo continuato per ore. Devo confessare che è stato come un innamoramento, una fascinazione intellettuale: parlavamo e pareva che avessimo cose da dire, che ci capissimo, che avessimo qualcosa in comune da fare e la disponibilità per farlo. Incredibile ancora oggi in questo silenzio pieno di parole che ci avvolge soffocante.

Asger Jorn aveva questo potere, era un motore e un promotore intellettuale, era un agitatore, un creatore di movimento: più tardi affascinò anche quella che è oggi mia moglie e ci mettemmo insieme a lavorare su idee la cui attualità è e mi pare innegabile: l'idea stessa di un Bauhaus immaginista che mettesse in crisi il vecchio, radicalmente, ma insieme recuperasse la necessità di un lavoro da fare, di un confronto con la realtà, di una presa di coscienza critica dei problemi, delle contraddizioni, delle stesse possibilità offerte e negate: c'era nel vecchio Bauhaus di Gropius, Klee, Kandinsky, una ricchezza di problemi e di "errori" che non può essere liquidata con spirito da storico entomologo come una farfalla infilzata e classificata per sempre e a futura memoria; l'idea che toccasse al pittore di ripensarsi l'estetica della pittura, che gli toccassero i problemi teorici della forma "sensibile"; il coraggio di parlare di dialettica, di triolettica, di arte e con azzardo di complementarità secondo Niels Bohr; l'idea di confrontare l'arte con la politica, ma anche con la scienza e la tecnologia, senza dare per scontati i presunti superamenti, le morti e le palingenesi rivoluzionarie.

Il coraggio di pensare gli apparteneva. L'aveva ancora l'ultima volta che l'ho visto, a Torino, in casa mia, nel 1968, durante un'ultima lunghissima e bella discussione. Come tutti sanno, a cinquantanove anni Jorn non c'era più. Per me, per Elena, non era l'artista ormai famoso che era scomparso ma l'amico che avevamo amato così com'era, con i difetti innegabili e le indubbie e grandi virtù.

 

(1986)

 

 

 

 

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