Piero Simondo, Monotipo, 1956


In una (abbastanza) corta unità di tempo:
PIERO SIMONDO, IL M.I.B.I., I MONOTIPI
(1954 – 1964)

di Sandro Ricaldone

Nel quadro del panorama artistico europeo della prima metà degli anni ’50, ove alla ripresa del concretismo si affiancava la progressiva ascesa dell’informale, alla diaspora lettrista l’approccio spazialista di Fontana, il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista occupa una posizione peculiare. Non tanto per la sua configurazione transnazionale, che già era stata un tratto costitutivo delle avanguardie storiche e nel secondo dopoguerra aveva caratterizzato la vicenda di CoBrA, quanto per la sua aspirazione a delineare – travalicando la messa a fuoco di una poetica novatrice e/o di tendenza – il ruolo dell’arte in una società ormai segnata dal modo di produzione industriale, retto da standard meramente funzionalistici.
Questo proposito traspare con chiarezza dalla riflessione condotta da Jorn in quegli anni sui temi delle relazioni tra immagine e forma, fra struttura e cambiamento (o della contrapposizione fra charme e mecanique, fra simmetria ed esistenza), di cui s’innervava la coeva presa di posizione polemica contro Max Bill e la Hochschule fur Gestaltung di Ulm, portabandiera dell’Industrial Design, culminata nello scontro in un convegno alla Triennale di Milano nell’ottobre 1954.
Contrariamente all’affermazione dell’artista svizzero che implicitamente apparentava le posizioni di Jorn ad una concezione “dell’artista come eremita, come anacronismo vivente, producente una quantità di metri quadrati coperti di colori e di motivi che non hanno altro significato che di servire all’espressione di un individuo”, la strategia che verrà perseguita dal M.I.B.I. negli anni seguenti farà perno (oltre che sulla prosecuzione del confronto pubblico, con il Primo Congresso mondiale degli artisti liberi organizzato nel 1956 sul tema “Le arti libere e le attività industriali”) sul laboratorio creato ad Alba nel settembre 1955: un ambiente specificamente dedicato alla ricerca ed alla sperimentazione artistica, basato sull’interazione dei soggetti e la pluralità delle opzioni.
Mentre le precedenti “esperienze” del Bauhaus Immaginista (gli Incontri internazionali della ceramica tenuti ad Albisola nell’estate 1954; la decorazione di piatti da parte di un gruppo di bambini l’anno seguente) apparivano orientate su schemi mutuati dall’attività di CoBrA, l’opzione per il laboratorio annuncia un decisivo sviluppo che si realizza attraverso l’incontro di Jorn con Piero Simondo e Pinot Gallizio. Al di là della comune radice scientifica, l’idea di laboratorio si articola diversamente nei tre protagonisti. Jorn lo concepisce come una sorta di community of inquirers, in un senso molto simile al modello proposto da Peirce per la crescita della conoscenza. Gallizio ne fa il luogo deputato di un’alchimia estrosa, dove vagliare le più azzardate combinazioni di materiali e di forme. Simondo, invece, ne elabora una versione d’impianto metodologico, che propone di agire attraverso ipotesi di lavoro intenzionalmente formulate, secondo un processo in cui, come scrive in Eristica (1956), “la struttura finita può essere oppure no lo strumento di controllo di una prossima operazione – il tessuto complesso assunto come elementare di una nuova opera”.
Nonostante la vena antispecialistica sottesa a questo progetto, il laboratorio di Simondo non è, banalmente, una microaccademia dove acquisire la padronanza di tecniche magari inconsuete per produrre un’arte purchessia, bensì uno spazio nel quale fondare con rigore una prassi differente, capace di investigare la materia e di elaborare procedimenti volti a dar vita ad immagini impreviste.
Coerentemente con un simile assunto, il suo operare si è orientato, sin dall’avvio, su modalità che non privassero l’esito pittorico d’un margine d’indeterminazione. Analogamente a quanto accadrà negli anni ’70 con le “ipopitture” e nel decennio successivo con i “nitroraschiati”, i monotipi realizzati a partire dal 1954 mirano insieme ad una spersonalizzazione del gesto, introducendo il diaframma della matrice (la lastra di vetro su cui sono stesi i colori), e ad affrancare, almeno in parte, tramite la specularità e le imperfezioni dell’impronta, l’immagine dall’aspettativa dell’autore e dal peso della tradizione (anche di una tradizione, per così dire, d’avanguardia). Si tratta di un sovvertimento allora appena avvertibile ma in fondo non meno radicale del détournement di elementi estetici prefabbricati teorizzato da Debord, dato che al suo estremo contempla il deperimento del ruolo dell’artista e l’autoproduzione dell’immagine visiva.
Se quest’approdo viene sancito con evidenza in talune fra le opere più recenti di Simondo, per i lavori degli anni ’50 è lecito invece parlare di una dinamica sotterranea, che si accompagna alla propensione, non comune per l’epoca nel nostro paese, verso un primitivismo in bilico tra memoria figurale e astrazione espressionista. Sui fogli raccolti in questa mostra, per la maggior parte inediti, si stagliano profili di personaggi che appaiono come incisi su fondi solcati da tracce gestuali o maculati da colori sovrapposti; segni ancestrali, simili a graffiti rupestri, che attraversano rossi slabbrati, infittimenti d’un giallo intenso o, ancora, frastagliate campiture che sembrano evadere dai confini del supporto. Un percorso che trova la propria sintesi nelle pagine di un libro che, in omaggio alla tecnica del monotipo, reca l’insegna della duplicazione e, nella contestualità della sua distanza cronologica e della sua presenza fisica, ci riporta all’affermazione di Heidegger secondo cui “Il dipinto dura alla sua maniera. Ma l’immagine giunge sempre improvvisa nel suo apparire, non è nient’altro che l’improvviso di questo apparire”.

 

  (2005)

  (Testo Catalogo mostra Galleria Peccolo - Livorno)



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